Dialogo sulla scrittura con Livio Romano

di Elisabetta Liguori

In un lento avvio di primavera mi trovo a parlare di scrittura con il mio amico Livio Romano, scrittore notissimo e di grande verve, nell’ultimo periodo alle prese anche con scuole di scrittura creativa principalmente rivolte al territorio salentino. Inerzia, impegno, follia? Non è la prima volta che ci ritroviamo a ragionare su questo. Siamo gente nata nel 1968, noi, gente che non riesce a dimenticare gli anni ottanta, gente che adora parlarsi addosso, che si racconta le cose per non dimenticarle e avere così l’impressione di vivere più a lungo. Gente da sempre ferma sulla soglia della Camera della propria Infanzia, come qualcuno la chiama: un piede fuori ed uno dentro.

Sei mai riuscito a capire davvero perché continuiamo a scrivere? Perché scegliamo una storia invece di un’altra, ugualmente possibile, ugualmente memorabile? C’entrano davvero qualcosa i lettori, l’età, la solitudine, il vuoto di verità, il bisogno di salvarsi la vita?

Si può dire e si è detto tutto e il contrario di tutto, sulla scrittura, ma sostanzialmente io credo che scrittori si nasca, tutto qua. Se scavi nella biografia di ogni autore scopri che componeva poesie, articoli, storielle già a otto anni. È la necessità di esprimere un fatto, un episodio, una sensazione attraverso una particolare, originale, esclusiva voce. La quale si affina crescendo ma che davvero non può fare a meno di “parlare”. Sì, c’entra il bisogno di salvarsi la vita, ce lo diciamo sempre, c’entra eccome! È il bisogno anzitutto di raccontarsela in un certo modo, di raddrizzare la realtà a nostro piacimento. Lo scrittore vero poi scrive sempre. Non è una facile tautologia. Colui che vorrei-ma-non-posso-perché-mi-blocco semplicemente non è uno scrittore. Nei corsi di scrittura consigliamo di non fermarsi mai a pag. 3 ma di andare avanti almeno fino a pag. 10. E gli allievi son sbigottiti. “Ma se io a stento arrivo a metà pagina”, dicono. Scrivere si nutre anzitutto di tutto quello che hai letto, ma anche di quello che hai già scritto. Di come s’è modificata quella voce che a tutti i costi chiede di prendere la parola. La scelta della storia da raccontare, poi, è La Questione. Tu sai bene che son le storie che scelgono noi per essere raccontate. Intorno ai vent’anni la tua poetica è già bell’e fatta. Quell’insieme di stile e materia che trasformi in narrativa: è là che attende solo la restante parte della vita per essere modellato a pieno. C’è chi è attratto dai rapporti familiari, chi dalle storie di impegno sociale, chi dall’amore e dall’odio. Ma quello che decidiamo di raccontare è sempre una sfumatura, una zona d’ombra di queste circostanze esistenziali. Se dovessi riassumere la “mia” storia standard, direi che c’è sempre un forte conflitto fra moderno e arcaico, fra quello che avremmo voluto e quello che è stato, fra miseria e nobiltà (spesso, queste ultime, messe in scena in senso assolutamente non metaforico). Oh, quanto ci sente meno soli quando si plasmano questi personaggi di carta e li si installa sul palcoscenico verbale. Quante volte sono venute a farti compagnia anche nei sogni le tue donne, quelle alle quali hai dedicato gli ultimi due anni della tua vita, Elisabetta? Quanto le hai amate e detestate? Se lo scrittore non prova sentimenti fortissimi nei confronti dei suoi stessi personaggi difficilmente il lettore vi si immedesimerà…

Credi che la scrittura sia una buona compagnia? Per quel che mi riguarda, mi rendo conto che, da quando tutta questa storia è cominciata, mi ritrovo sempre più spesso a trascorrere le mie serate sul divano: io e i libri da leggere, quelli già letti, quelli scritti, quelli da scrivere. La scrittura ci può bastare, cosa esclude, cosa aggiunge?

La scrittura è una/un amante nel senso letterale del termine. Antonio Errico una volta ha scritto che nasce sempre da un furto di tempo, ed è vero. Togliamo tempo ai figli, a nostri amori, al piacere, all’aria aperta, al lavoro. È un continuo sentirsi in colpa, inadeguati. Scrivi, e ti senti in colpa per aver sottratto tre ore al rapporto coniugale. Non scrivi e ti viene l’angoscia per quel passaggio che devi concludere e che –mentre provi a vivere- continui a riscriverti in testa nelle forme più svariate. Però se è vero, ed È Vero, che leggere moltiplica esponenzialmente la quantità di vita che ci è concessa, anche scrivere arricchisce la nostra esperienza. Perché puoi provare a piacimento tutte le combinazioni che nella vita reale non ti è stato dato di verificare.

Per quel che mi riguarda, è la gente conosciuta attraverso i libri quella che mi ha fatto crescere davvero e questa circostanza casuale mi sembra la parte più bella del gioco. Che rapporto hai tu con i tuoi lettori? Ci sono quelli fissi? Quelli occasionali? Quelli preferiti?

Sì, è la parte più bella: son d’accordo con te. Se non fosse così non si spiegherebbero le decine di manoscritti che ogni santissimo giorno arrivano in ciascuna casa editrice italiana. Sentirsi uno scrittore è uno dei tanti modi di “sentirsi” tout court. Giorni fa Marco Candida ha raccontato di un anziano che gli ha consegnato un manoscritto (di nessun valore letterario). Commentava che quel gesto, quella consegna per quell’uomo aveva il sigillo della consacrazione ontologica. “Ti do questo scritto, dunque sono”. Figurarsi poi se si arriva alla pubblicazione. Ma al di là di questi aspetti pittoreschi, la vera legittimazione a continuare viene soltanto dai lettori. Dal feedback che ne ricevi, se mi permetti di usare questa parola immonda. Sono un uomo fortunato. Ho molti lettori affezionati e devoti. Gente che si è riconosciuta, che addirittura ha fatto delle scelte esistenziali fondamentali dopo aver letto un mio racconto. Giovani donne e giovani uomini che mi scrivono da ogni parte d’Italia (a volte anche da posti molo lontani come la Francia o gli Stati Uniti) perché hanno riso (e a volte pianto). Ecco, il mio lettore preferito è quello che ha riso insieme a me delle vicissitudini dei personaggi. Ché è chiaro che sono io il primo a sganasciarmi quando metto in scena una situazione grottesca.

Dall’esperienza della scrittura è nata la nostra amicizia. Guardati, guardami. Le nostre voci letterarie in questi ultimi anni, come spesso mi dici anche tu, si sono avvicinate, scontrate, confuse, poi allontanate, confrontandosi di continuo con i tempi e i luoghi che viviamo separatamente. Ridendo come pazzi: così abbiamo scritto entrambi. Tanto. Sempre. Come cambia secondo te la voce di chi scrive, cosa la condiziona? Saranno mai davvero utili le nostre risate da bambini?

Com’è noto, Palazzeschi invocava “lasciatemi divertire!” “Queste piccole corbellerie / sono il suo diletto […] non è la vostra una posa,/ di voler con così poco / tenere alimentato / un sì gran foco? […] Il divertimento gli costerà caro,/ gli daranno del somaro”. Niente di più tragicamente vero, mia cara. Tu e io siamo amici, ci raccontiamo un sacco di storielle, le trasfiguriamo e ci balocchiamo con queste “correzioni” della realtà (per dirla con Franzen). Ma il dato di fondo, nei racconti che ci scambiamo –siano essi racconti realmente funesti oppure comici- è la necessità quotidiana di avere un pubblico che ascolti le storielle filtrate dalla nostra peculiare vocina narrativa. È chiaro che la narrazione si nutra, oltre che dei racconti scritti, anche e soprattutto di quelli orali. Io ascolto te, leggo te e mi metto al pc ed è inevitabile che uno stilema tuo vada a finire fra i miei polpastrelli. Ed è chiaro anche che, mentre scrivo queste cose, mi scappa da ridere perché mi pare che mi stia prendendo dannatamente sul serio e non è da me. Lo dici tu, poi, no? Che scrivere, bazzicare questo circo è un modo di prolungare (o di vivere ex novo) un’adolescenza infinita. La moglie dell’amico di Mickey, in Philip Roth, gli dice a un certo punto: “Hai una mente da bambino di tre anni imprigionata in un corpo da vecchio”. La pagheremo, come dice il Poeta? Sempre nel “Teatro di Sabbath”, Roth non “concede” neppure la morte bramata al funambolo (somaro) empio. Rimane lì, nudo, a rabbrividire del Vuoto dopo aver sogghignato per tutta la vita…