Di uno nato per caso a Piacenza

di Vito Antonio Conte

Cos’è e/o chi è l’ultimo menhir? Raffaele Polo ha una sua risposta a questa domanda. Il menhir è una cosa soltanto. E tante altre. E’, invece, se riferito a chi, l’identificazione con Qualcuno molto caro all’Autore: l’Ultimo menhir, con la U iniziale maiuscola. Ma è, anche, il titolo dell’ultimo racconto di Raffaele Polo, pubblicato (nel marzo scorso) per i tipi di Lupo Editore. Buona veste grafica, ma non la migliore per il contenuto del libro, secondo (non solo) chi scrive. Qualche refuso di troppo, alcune “vedove” e… si può far meglio (l’amico Mimmo –meritorio per tutto quel che fa come editore in questa terra- non me ne vorrà). Specialmente per un testo di 92 pagine (tutto compreso). Scandite in 24 brevissimi capitoli. Il più corto di appena mezza pagina. Ma decisivo per capire il senso del racconto, perché di racconto (lungo) si tratta: genere col quale l’Autore ha maggiore dimestichezza. Raffaele Polo è giornalista, scrittore, critico d’arte e letterario, co-conduttore di programmi radiofonici e divulgatore culturale. E’ nato, per caso, a Piacenza, ma da sempre vive e lavora a Lecce. Ha pubblicato romanzi e racconti che citare ha (vi dirò poi perché) un senso: Gite nell’irreale (1985), Lo stemma di Lecce. Storia e documenti (1987), Guida per il benevolo viandante che s’imbatte nel frontespizio e si chiede cosa diavolo (1989), Titolo: Vessazione col ciglio inarcato (e la faccia furbetta) (1990), Una breve storia (continuamente interrotta) (1991), Una storia leccese (1992), 0832 per chi chiama da fuori distretto (1995), Poesia in bianco e nero (in viaggio tra le rime e i segni di mio padre Giovanni) (1996), Diariu de nnù uài (un curioso accidente) (1997), Natali (1998), Il silenzio del pesciolino rosso (un giallo leccese) (1999), Un nome scritto sull’acqua (2001), Un nome scritto nel cielo (2003), Storie segnate (2004), Libreria Antica Roma (2006), L’isola delle pazze (2007), Le fiamme di Supersex (2007). Ma ha pubblicato anche fiabe e altro ancora. Mi interessava citare i racconti e i romanzi (gran parte dei quali introvabili, ormai) perché Polo, in tutta la sua produzione, ha sempre contenuto i suoi libri ben entro le duecento pagine. Quel numero, cioè, sotto il quale molte case editrici neppure considerano un libro degno di essere pubblicato. Poco importa il contenuto. Questione di leggi di mercato. Che uno si chiede: ma chi cazzo le ha inventate? Risposta: quegli editori, appunto. Che se fottono di tutto il resto e di chi legge. I lettori, per loro, sono tutti uguali… mercato da spremere. Meno pensano, meglio è. Poco importa la sostanza. Il gioco è sempre più sulla quantità, a scapito della qualità. Mi sembra una tendenza priva di qualsivoglia ragionevole motivo (a parte quello citato) e dico ciò senza voler generalizzare. Vorrei soltanto che fosse chiaro che (per me) poco importano le dimensioni (non di quello che state pensando!?!), ma un buon libro è tale indipendentemente dal numero di pagine che lo compongono. Un libro (ma anche quello cui stavate pensando prima) per essere un buon libro deve trasmettere, dare, evocare, far toccare e/o toccare, porre, lasciare, rendere qualcosa. Una bellezza, un interrogativo, un’emozione, una sensazione, una risposta, una realtà fantastica, una fantasia concreta: qualsiasi cosa. Ma deve farlo come nient’altro mai prima. Sì da poter dire, dopo la lettura: cazzo, valeva la pena leggerlo. Ora l’ultimo menhir ha questa qualità. Con un pregio: si legge in un paio di comode ore e non devi consultare il Novissimo Dizionario della Lingua Italiana. Voglio dire che si tratta di un racconto che, pur affrontando temi complessi, quali l’esoterismo, l’amore, l’età ultima, la follia e il contrario di tutto ciò, è reso in una lingua colloquiale e senza concessioni a certi inutili barocchismi e/o altre trovate letterarie o pseudo tali. C’è, in questo racconto velato di mistero, tutta l’energia che non ti aspetti, giocata nel paradosso tra i piccoli gesti quotidiani e i grandi temi esistenziali, accentuato dall’età senile del protagonista (e dalla completa assenza di ricordare qualunque passato) e da quel che gli capita. E dalla consapevolezza di ciò: “nella vita, capitano le cose migliori quando uno… non è più in grado di accettarle”. E però, paradossalmente, le vive appieno. Chè la nostalgia quando strugge va bene, ma quando t’inchioda a quel che non può tornare annichilisce. Chè, forse, quando si riesce a comprendere un fatto così, non si ha più nulla da perdere e si va fino in fondo. Raffaele Polo (omaggiando una senilità) ha dipinto con le parole uno spaccato della senilità per niente melanconico, traendo dalla tipicità di quella fase dell’umano vivere, convenzionalmente fatta di impotenza, emarginazione e tristezza, l’affermazione di una quotidianità carica di forza e desiderio che dovrebbe far riflettere sulla possibilità e sulla capacità di dare dei nostri padri (e, ovviamente, delle nostre madri) e sul loro diritto a spendere come meglio credono la fine. La loro. E sul rispetto dovuto da parte di tutti a chi può, magari solo alla fine, vivere un momento come quello vissuto dall’Ultimo menhir e che Polo sintetizza in un rigo: “Quella scena, quelle parole, quegli occhi li stavo aspettando. Da un’eternità.”, che –da solo- vale la lettura del libro. Perché Polo possiede il segreto del sottrarre. Quel segreto che, piuttosto che aggiungere parole a parole, fa sì che, togliendo l’inutile e il superfluo, eliminando il di più, lavorando di sottrazioni, rimanga il lemma migliore: quello necessario e sufficiente per raccontare una storia. Una storia di cui volutamente non vi ho detto quasi nulla, ma che, come tutte le storie interessanti, finisce… come in un film. Tra un vecchio rebus e il nuovo numero della Settimana Enigmistica. Tra amori improbabili e persone reali. Tra vie visibili e campagne elettorali occulte. Tra la consapevolezza di essere tutti, in un modo qualunque, un po’ pazzi e non volerlo ammettere. Tra chi lo è davvero e ne soffre e diventarlo per finta e finalmente ch’è l’unica salvezza. Tra correnti sotterranee invisibili ma vere e un omicidio inesistente e sognato. Proprio come in un film.