Scrivere per cercare




Antonio Errico su
Giacomo Annibaldis, Casa popolare vista mare, Besa, 2007.



Come ogni scrittore, Giacomo Annibaldis scrive per cercare. Come ogni scrittore Giacomo Annibaldis scrive per cercare cose che conosce. Cerca quelle cose che conosce perché ha bisogno di definire l’origine e la consistenza esistenziale del proprio tempo, della propria storia, di quello che è accaduto e di quello che si è sognato, di quello che è andato bene e di quello che è andato male, della vista mare che a volte è limpida, trasparente, libera da ogni striatura di cielo che offuschi lo sguardo e che a volte, invece, è annuvolata, nebbiosa, senza spiraglio, senza orizzonte, senza sognamento.
Cercare quello che già si conosce è esattamente come guardarsi allo specchio in un preciso momento pensando, in quel preciso momento, a come si era in un momento diverso, in un passato prossimo o remoto, vicino o lontano. Ecco: per Annibaldis la “ Casa popolare vista mare” è questo gesto di rispecchiamento. Scrive per ritrovarsi in ogni pagina, in ogni frase, ogni riga, ogni parola, ogni sillaba. Perché non sono parole, frasi, sillabe; sono piuttosto giorni andati via. Sono voci che il tempo ha risucchiato e portato lontano, che fa mulinare e tornare, di tanto in tanto, sempre più spesso, mentre si sta camminando, lavorando, parlando con gli amici, che certamente fa tornare ogni notte, soprattutto in quell’ora che non è notte più e non è alba ancora, allora quelle voci tornano nel residuo dell’insonnia, nello spossato dormiveglia, a dire cose già dette, a ridare un consiglio, a rinnovare un conforto, una consolazione.
Ritornano perché sono volti che ci appartengono, materializzati nell’aria in cui affondiamo lo sguardo, sovrapposti ai nostri stessi volti che giorno dopo giorno si fanno sempre più somiglianti, fino a confondersi.
Come ogni scrittore che fa quotidiana esperienza della strana – e spesso indesiderata, dolorosa – confusione tra le storie della vita e quelle di una narrazione, Giacomo Annibaldis si ritrova a raccontare storie che non sono altro che la sua stessa storia. Sono il nucleo di quello che poi è venuto, di quello che c’è stato, di tutto quello che si è perso e guadagnato, dei patti fatti con i sogni e la fortuna, un po’ per celia e un po’ per non morir, come diceva il vecchio Petrolini.
“Casa popolare vista mare” è sostanzialmente il racconto di un ritorno. Annibaldis fa tanta, tanta strada, notte e giorno, in sonno e in veglia, per paesi, per libri, per mitologie, per vibranti antichità, fa tanta strada con le gambe e col pensiero, con la passione e la ragione, per arrivare a domandarsi dov’è finito l’uomo che vendeva gelati al limone, e dove sono finiti tutti gli altri, tutti quelli delle palazzine. Se lo chiede come Edgard Lee Masters si chiedeva dove fossero l’abulico, l’ubriacone, il buffone, rispondendosi che tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.
Annibaldis non sa oppure non dice dove dormono tutti quelli dello Iaccipì: l’accattona, la Calabrese, la Menna- Menna, la Pizzicatrice, la bambola, i vecchi, le vecchie.
Quando si cerca qualcosa, allora, non si cerca altro che quello che già si conosce. Così quando si ritorna si ha desiderio di ritrovare quello che c’era, anche se si sa perfettamente che niente può essere mai nel modo in cui è stato.
Quando si racconta un ritorno si fa confessione della consapevolezza di questa impossibilità di ritrovare luoghi e creature.
Allora non si dovrebbe ritornare mai. Non si dovrebbe raccontare mai. Non raccontate mai niente a nessuno, va a finire che sentite la mancanza di tutti, dice Salinger alla fine del “ Giovane Holden”.

Invece Annibaldis racconta perché avverte la mancanza di tutte quelle esistenze stupefatte dal mondo, sopraffatte dal tempo, soverchiate da destini incomprensibili o beffardi, qualche volta oltraggiosi. Sa bene che tra quella gente si è fatto il suo volto, la sua storia, tra quella umanità che sapeva salvarsi la vita istante per istante, e dopo che l’aveva salvata se la stringeva forte perché era la solo cosa che possedeva, anche se sembrava che non valesse niente. Invece valeva quanto tutto l’universo, perché era autentica, perché era essenziale. Annibaldis racconta: ora che sa leggere di greco e di latino, e scrive e scrive e ha molte altre virtù, sa che non può scrivere altro che di quel tempo, di quel luogo, di quelle storie; sa che ogni sua parola è citazione della parola della madre; sa che il classico dei classici è il corpus dei versi di Tommaso, il poeta con il ventre dilatato, come un relitto gonfiato dalle maree.

“ Casa popolare vista mare” è uno di quei libri che si tengono dentro, in segreto, per anni e anni, che crescono lentamente, si stratificano, si nutrono di sangue, di memoria. Poi si fanno sillaba, parola, racconto. Quando il tempo è maturo, come la vita.

Questo è un libro che Giacomo Annibaldis doveva scrivere. Per un impegno assoluto e ineludibile con la madre, con la propria storia d’uomo, con se stesso; per un patto con la terra, con la memoria, con il destino, con l’origine, con il tempo passato e con quello a venire, con i dolori superflui, le misere felicità, i pochi – ma straordinari – stupori.
Questo è un libro che doveva alla sua infanzia: perché, come dice Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò, abbiamo tutti una montagna dell’infanzia, e per lontano che si vagabondi, là dovremmo ritornare perché là fummo fatti ciò che siamo.
Lo doveva a quella foresta di volti che ha attraversato per tutti i suoi cinquantasette anni; a quell’oceano di voci che in ogni stagione lo ha inondato; a tutti i sogni ad occhi chiusi e aperti, alle partite vinte e a quelle perse, ai giorni chiari e anche a quelli scuri.
E’ un libro che doveva ad una figura di madre delicatissima e possente, un portento di metafora, un ricordo consolante, che insegna che la vita è battaglia e pietà, altruismo e sapienza, rispecchiamento nell’esistenza di un altro, che non fa da guardia alla sua casa dello Iaccipì ma alla scrittura di un figlio, al suo desiderio di parole e al vincolo che ha con esse, che ritorna nell’immaginazione e nell’impegno duro, continuo, con la vita, che sorveglia il passo durante il cammino, come angelo custode e compagna di strada, come premonizione e come sintesi di ogni possibile esperienza.
Questo è un libro che Giacomo Annibaldis doveva al poeta Tommaso: a quell’uomo che si fa portavoce di molti altri uomini cui non è stato dato un nome, che guarda l’universo con la disperazione e la dolcezza di chi non ha bisogno di apprendere niente perché il nascere gli ha già insegnato tutto: il sogno e la consapevolezza della sua impossibilità, l’irrimediabilità della solitudine e la bellezza del mare, l’amicizia che accade come una straordinaria fortuna, la messinscena della tragedia e della commedia sul fondale di scena di ogni giorno.
Doveva scriverlo, Giacomo Annibaldis, questo libro.Per testimoniare che la fatica, l ‘onesta e la parola, un grande sogno cresciuto dentro gli occhi, lo sguardo che oltrepassa l’orizzonte del tramonto, possono consentire anche ai topi di volare.
Ma se un topo ha imparato a volare – dice Annibaldis – non vuol dire che è diventato un uccello. “E’ solo un pipistrello”.
Certo, è solo un pipistrello. Ma che vola. Perché, forse, quello che conta è soltanto il volo, il desiderio di tentare il cielo, l’azzardo esistenziale di stendere le ali – piccole o grandi che siano non importa – e non se a volare sia un albatro o un pipistrello.
Diceva Franz Kafka nel terzo dei suoi Quaderni in ottavo: “Le cornacchie affermano che basta una sola cornacchia a distruggere il cielo.La cosa è indubitabile, ma non significa nulla contro il cielo, poiché il cielo significa appunto incompatibilità con le cornacchie”.
Ma non c’è nessuna incompatibilità tra il cielo e i pipistrelli. Il cielo appartiene a loro nella esatta misura in cui riescono a scoprirlo, a farsi accogliere, riconoscere come creature che volano perché hanno il desiderio o il bisogno di volare.
Doveva scriverlo un libro come questo, Giacomo Annibaldis. Perché, poi, quando tutto passa, le avventure si concludono, i furori si consumano, quando la memoria comincia ad offuscarsi, e i personaggi e le scene si fanno lontananti, allora resta la scrittura come prova che i fatti sono accaduti, che qualcosa è cambiato, che le parole sono fiato capace di trasformare l’universo, che il gelataio c’è stato davvero e i suoi gelati al limone erano i più buoni che mani d’uomo abbiano mai potuto impastare.
C’è un elemento che in questo libro diventa espressione connotante, cifra che lo sottrae a qualsiasi tentativo di assegnarlo rigidamente ad un genere. E’ un elemento dello stile e quindi della personalità. E’ un elemento della formazione e quindi della sensibilità. E’ un elemento della cultura e quindi della capacità di rielaborare i segni e di stabilire relazioni con l’altro da sé.
E’ la pietas, questo elemento. Una sorta di dolcezza che mitiga la sventura che travolge ogni creatura. Un colore che apre una finestra di luce nell’oscurità delle vicende.Una bellezza della speranza che insidia la consapevolezza della irreversibilità e irrimediabilità della miseria. Un profumo di pulito che per un attimo dissipa un lezzo nauseabondo del quartiere.
La pietas è la percezione di una malinconia, di un tumulto di sentimenti e sensazioni, un affetto verso i luoghi, le storie, gli uomini, nei confronti di una geografia dell’anima; è un abbandono rassegnato all’inevitabile; è un’etica della storia, incorruttibile.
La pietas è una sommessa preghiera verso tutti quelli che sono andati; è un gesto di coraggio verso quelli che sono rimasti e si confrontano con il tempo, con una dignità di dei sopravvissuti alla fine del mondo.
La pietas è un certo sapore della solitudine; l’esperienza di ritrovare, in fondo alle immagini della scrittura, l’universo dentro il quale si è diventati quello che si è, così come si è.
Doveva scriverlo Giacomo Annibaldis questo libro.