Lo Ieratico poetare dei tempi.
Lettura di “Ieratico Poetico” di Stefano Donno – Besa - 2008

di Elisabetta Liguori

Davanti ad un vero poema epico contemporaneo in tanti potrebbero strabuzzare gli occhi, scuotere la testa scettici, ne sono consapevole, e questo perché in tanti hanno paura della poesia, soprattutto oggi, della sua rapidità, della vastità della sua verità soggettiva, della sua fatica intellettuale, quanto della sua inevitabile crudeltà.

In tanti hanno paura persino degli eroi, specie di quelli moderni, specie di quelli del sud, ancor più imprevisti di molti altri.

Ma la poesia è musica del tempo che viene e delle sue gesta. Deve destare sorpresa. Quella di Donno, nel dettaglio, è contemporaneo, omaggio al mito e riesce ad essere fortemente eroica, anche quanto appare semplice, anche quando inneggia al nulla. Un nulla sapido, ma pur sempre un nulla. Dalla forza di un singolo eroe da niente e da quella di un popolo intero, infatti, Stefano Donno ha tirato fuori un vero poema per Besa editore. Una rarità quindi, spaventosa ma autentica. E terribilmente moderna, poiché i piani d’ascolto, tutti diversi, risultano connessi, contigui, per quanto disomogenei.

Non è una poesia della pancia, la sua, ma globale. Un poema sulla fatica dell’ascolto e le sue contraddizioni.

In Ieratico Poetico, con suoni forti, tinte a tratti fosche e grande rispetto per la comica grandiosa miseria dei luoghi di provenienza, ecco prendere suono la città, il sud, l’Homo Civicus e i suoi desideri.

Il tutto in tre movimenti:

1) il respiro autonomo, ritmico e iconografico della città e del sé in intreccio;

2) le cose del tempo da tacere poetando;

3) l’esplodere rapido del desiderio di essere e dire nel mondo.

Cercherò di spiegarmi meglio per punti anch’io:

1) Questo poetare è ieratico, perché sacerdotale. È diretta conseguenza della volontà di tracciare un segno sacro nell’aria, di indicare un cammino possibile, lasciando che la scia sorprenda per suoni e vigore quanti la osservano. Quello stesso segno, poi una volta mosso, si perde nelle forme geografiche naturali o antropiche, ne diventa parte. Non è assertivo, ma attento. Per questa ragione, mi pare vero che la poesia di Donno si faccia da sé. Il poeta si limita ad ascoltare, a riprodurre suoni quasi fosse un strumento a fiato e quello che riproduce dunque è respiro. Artificio respirato. Respiro che si fa tempo e immagine, cadenza tecnologica, memoria iconografica, suono ancestrale, mescolando il sé con gli stimoli esterni. Ecco il senso del primo movimento poetico costruito da Donno dunque: automatismo personale, indotto e condotto con sacralità e ritmo, che richiede una fatica immane, ostinazione cruda, ossessivo orecchio, lavoro duro, lavoro sodo, lavoro vita, sempre, di morfinico imbestialimento/ in autunno/ in primavera/ in estate.

2) La poesia deve tacere l’ego, secondo Donno. È il suo vanto questo suicidio. Deve dire del mondo attraverso l’io, ma tacerne la gola. Essere vivi è già un incubo e dunque la poesia deve essere culla che addormenta l’orrore personale e tiene sveglio quello comune. Filtro che evacua un sospiro. Che lo condivide. Sospiro faticoso di un uomo che viaggia su un’autostrada di cemento verso un’ignota destinazione, ed è e resta un uomo come tutti, che di tutti è la somma fedele quanto epica. Solo così il singolo può riappropriarsi del proprio sfinimento e dare senso compiuto al racconto di sé. Perché chi scrive non può fare a meno di soffiare nelle orecchie dei suoi simili, ma un valore deve pur darlo al suo fiato e far sì che non sia solo aria. Ne consegue che il secondo movimento altro non è che quello della cancellazione, della rinuncia e del nuovo incipit. Chi vuole ascoltare davvero deve saper intrecciare il rumore, agganciare un suono all’altro e poi dimenticarli per ricominciare.

3) È umano questo poetare? E se lo è, in che termini?Questo sembra chiedersi Donno tra i suoi ironici giochi lessicali e grafici. Forse lo è quanto lo è il desiderio. Lo è quanto il contrasto tra quello che dovrebbe essere e quello che è. È dal conflitto tra il dover essere e l’essere che nasce l’arte degli uomini. Sempre. Anche la poesia. È questione di sopravvivenza. Quindi il desiderio che muove anche il poeta è comunque quella sopravvivenza. La resistenza. Non una sopravvivenza minima, però io credo, ma ieratica. Autentica e forte come quella voluta da un Dio civico. La poesia è tutta qui/strategie politiche/ di rispetto della mitologia. A quel Dio civico e rumoroso, che costruisce calendari e atlanti, Donno risponde con il suo Homo Civicus. La sua è la costruzione in versi di un prototipo umano con la quale l’ uomo/poeta si confronta. L’individuo che rammenta, che Sente la collettività, la civiltà che lo attraversa, i luoghi che calpesta e dai quali è calpestato, ben responsabile delle sue orecchie, quanto della sua lingua, quanto del suo sesso, opposto al c.d. Homo Emptor, il corruttore, l’individualista radicale, il distratto. L’uno fa da contro canto all’altro, ugualmente incidenti sulla grande e la piccola Storia.

L’immagine che Donno crea con i suoi versi è dunque sempre duplicata: un uomo e l’altro, il singolo e il gruppo, la qualità e la quantità, l’eremita solitario e il cosmopolita utilitarista, l’ego e l’io, il corpo e il poeta. Ed ogni duello, ne deriva, ha il suo suonare sapiente, immediato, riconoscibile. A volte terrorizzante.