Pino Zimba - Se il filo rosso della cultura si perde nei salotti

di Francesco Lefons
(pubblicato su Paese Nuovo, venerdì 15 febbraio 2008)

Sgraziato, imperfetto, irruento, amato e odiato, snobbato e snobbista.
Brullo come la terra che si portava addosso e che è riuscito a raccontare attraverso l’animalesca rappresentazione di un sé racchiuso nel tamburello. Sguaiato e volutamente inelegante come quella canottiera bianca così poco chic che lo faceva diventare un tutt’uno con la sua missione espressiva. Insomma, Pino Zimba è riuscito, a modo suo, a diventare un messaggio culturale. Lui, però, non teorizzava sull’importanza antropologica che la riscoperta delle tradizioni possiede. Lui faceva e basta.
Forse è proprio per questo motivo che in fin dei conti il suo fare non ha mai smosso l’istituzionale interesse. Neanche nel giorno del suo funerale. Le rappresentanze di rilievo erano ridotte al minimo. Giusto agli amici, coloro che, al di là delle vicissitudini personali, riconoscevano in Zimba la nobiltà povera del suo essere musicista, macchina espressiva perpetua, proiettata alla divulgazione praticissima della tradizione. Per molti era quello che è stato in carcere, quello maleducato e a volte volgare. Certo, una bella gatta da pelare per il barocchismo salentino, e leccese in particolare. Un boccone difficilmente digeribile per il Salento giacca e cravatta che per circa quarant’anni la pizzica l’ha snobbata e che adesso la onora con l’immancabile presenza tra i Vip della Notte della Taranta. Non stupisce, dunque, se ai funerali di Giuseppe Mighali, detto Zimba, c’era giusto la gente di Aradeo, il suo paese. Come se il fatto culturale che lui ha rappresentato fosse circoscritto a una comunità composta da poco più di novemila abitanti. Cronachetta di paese, insomma, che a quelli di città arriva con il flebile eco di campane fatte suonare a lutto nel giorno dell’ultimo viaggio di un musicista.
Ma che si vuol fare. Il cordoglio, quello istituzionale che arriva nel giorno della triste notizia è stato già espresso. Ogni di più, a dovere ormai compiuto, risulta fuori luogo, eccessivo, sconveniente, forse immotivatamente passionale. Come Zimba, che con il tamburello riusciva a essere così invadente e poco cortese da offuscare quel minuetto barocco in cui la gente si riconosce per professione - “avvocato, dottore, ingegnere” - anziché per nome e cognome. Lo stesso minuetto che qualche decina di anni fa impedì ai salentini di riconoscere la genialità di persone come Carmelo Bene, Vittorio Bodini, Edoardo De Candia. Artisti - messaggi culturali del fare - che probabilmente nulla hanno a che fare con Pino Zimba, ma che in qualche modo hanno sentito addosso il fiato corto dell’incomprensione. Anche loro, come Zimba, snobbati e snobbisti, talmente inglobati dalla (e nella) loro missione culturale da non riuscire più a prendere in considerazione nient’altro che quella. Per questo spesso presuntuosi, intolleranti, scostanti. Determinati, insomma. Di sicuro così era Zimba, che la Taranta ce l’aveva disegnata persino sul tamburello che lui malmenava come fosse posseduto dalla magia ancestrale del profano delirio.
Di fatto, però, da quando l’alone pallido di un presunto benessere ha diviso anche a queste latitudini la città dalla campagna, i buoni dai cattivi, i raffinati dagli “poppeti”, tamburello e tarantolati sono stati nascosti sotto il tappeto del salone buono, quello così voglioso di mostrarsi per quello che non è ma che vorrebbe essere. Pornografia del sociale frutto del rifiuto tout court della propria terra, dell’omologazione a modelli e stili di vita derivanti da una coscienza “capitalistica e compassionevole” che brucia senza guardare in faccia nessuno ogni germe di appartenenza. Compreso il linguaggio e le sue variopinte interpretazioni di senso e di suono.
Poi, come sempre accade in questi casi, il riflusso culturale investe con forza uguale e contraria tutto ciò che per tanto tempo l’ha negato. Parte dal basso, dalla pancia, e poi arriva alla testa fino a farsi esso stesso salotto. Pizzica e tamburelli vengono fuori da sotto i tappeti e diventano cimeli da esporre nella vetrina sempre pulita dell’argenteria. Tradizionale è chic, anzi radical-chic. Si fa abuso di retorica della riscoperta. Tutto si immola al dio presenzialista della tradizione. Si muovono le genti e si muovono anche i soldi. La questione si fa (anche) politica. Arrivano i primi mal di pancia da indigestione e con esso le prime incomprensioni. Lo snobbato si fa snobbista. E’ a questo punto che i cavalieri puri del riflusso, i soldati della prima linea, prendono le distanze dall’istituzionalizzazione, dalle semplificazioni di quel messaggio culturale che per loro è missione di vita. Mica roba da niente.
C’è chi ha capacità di mediazione, naturale propensione al compromesso, buon senso dettato dalla situazione. Ma c’è anche chi per naturale vocazione non media e probabilmente non lo farebbe mai pur avendone le doti. Chi decide di andare dritto per la sua strada nonostante tutto, al di sopra dei giudizi e delle opinioni, dei litigi e delle paci fatte per quieto vivere. Zimba, probabilmente, era uno di questi. Sia quando - dal 2004 al 2006 - ha calcato l’enorme palco di Melpignano, sia quando, nel 2007, organizzò in quel di Gallipoli la controffensiva al concertone. Nulla di nuovo, si penserà, eppure la sensazione netta è che difronte a centomila persone o dinanzi a quattro gatti, il succo della sua presenza aveva lo stesso aspro sapore. Magie della cultura del fare, che è diversa da quella del teorizzare. L’una è indispensabile all’altra, questo è ovvio, ma gli interpreti raramente riescono a trovare momenti di sintesi virtuosa. Oppure sì, ma in quel caso dura poco. Una cosa è certa. Il tamburello sguaiato di Zimba, la sua canottiera bianca, il suo stile “maleducato”, hanno saputo strappare via la tradizione dai salotti per restituirlo alla gente. Al popolo. Quella pizzica è rimasta una questione viscerale, di pancia, di “sangue vivo” appunto. Lontana dai rischi dell’istituzionalizzazione perché viva nella duttilità delle mani - che è sostanza - e in stato di costante latitanza rispetto alla volontà di controllo della testa. Che è forma.