Paradiso perduto!

Domani l’uscita nelle sale di “Fine pena mai”

il nuovo film di Davide Barletti e Lorenzo Conte

con Claudio Santamaria e Valentina Cervi

di Mauro Marino

Un graffio denso di malinconia è “Fine pena mai”.

Cosa abbiamo perso? L’innocenza!

La semplicità e il mare. Il mare, lavacro e salvezza.

E il guardare anche: il guardarsi, confuso con la visionarietà d’uno sballo. Farsi, perdersi nell’illusione di un sé collettivo senza più binari, senza più “credo”. Gli anni Ottanta li conosciamo come gli anni del riflusso: l’edonismo s’affaccia al Secolo preludio della sua implosione.

Deriva di una generazione che sceglie la dimenticanza nella speranza di risvegliarsi altra, più forte, potente, ricca. Ma è solo la fragilità ad essere sfidata. La tenerezza, l’amore: scordati, sacrificati, venduti al niente euforico della polvere. La malattia, il non essere, l’annientamento!

Antonio Perrone era così? Non lo sappiamo! L’alter ego che Claudio Santamaria di lui rappresenta ci fa percepire quello scarto che persone come Perrone hanno rappresentato: “Tu non sei come loro” dice Lela - “la bella della villa” che studiava al liceo classico -, nel momento tragico della scelta, al suo amore dannato.

Farsi criminali come conseguenza d’un cerca mai esausto.

C’erano quelli che erano andati in India e c’era chi l’India la voleva trovare a casa sua. Come sottrazione, come atto anarchico, come puro piacere.

La “democratizzazione” dello spaccio, l’eroina che “delizia” di pochi aristocratici trova negli anni ottanta una generazione da placare nella sua domanda di nuovo. Un nuovo indeterminato, senza sostanza se non la delusione per il sogno di prima. Andato in fallo, irrimediabilmente macchiato dall’impossibilità di farsi vita concreta.

La storia collettiva di un Salento “laterale”, clandestino con i suoi “eroi” e le beffarde bestie della ferocia, della sopraffazione che tutto volevano specie ferire e dominare chi appariva differente. Piegarlo alla dipendenza, al bisogno nella trappola dell’assoggettamento.

Questa è stata l’eroina. Questa la terra che ha assistito alla nascita degli “scuri” salentini.

Un Salento ritratto nella sua luce. Senza barocco, se non quello simbolico della serialità di un deposito di statue che salta in aria. Un Salento notturno, interno, psichedelico e kitch. Senza patinatura, com’era a quel tempo. Crudo!

Il Salento dei cento paesi da conquistare, da dominare con l’artiglio della violenza organizzata.

In contrappunto: il livido cielo dell’Asinara, come mancanza, vuoto dove poter ricordare.

Ed è la voce di Antonio Perrone, l’“Italiano”, che ci accompagna nella visione del film.

Filo narrativo che conferma la scelta “documentaristica” che caratterizza la lingua di Davide Barletti e Lorenzo Conte e del collettivo Fluid Video Crew.

Una voce che attraverso la scrittura ha potuto trovare quiete alla dannazione.

Capire, capirsi. Sfilare il destino dalla Storia, dalla conseguenza, per rendere di sé un’immagine dove il cattivo non seduce, non attrae.

Non ci si innamora a guardare un amore che va a rotoli.

Davanti ad una vita che disarma.

Dentro il soffoco del tempo.