Di libri e di tradimenti

di Antonio Errico

C’è un istante in cui ogni libro mette in atto il più turpe dei tradimenti, quello che se viene commesso da un uomo condanna all’eternità dell’inferno: il tradimento del padre, il subdolo distacco dal suo affetto, l’abbandono, il rifiuto, l’avvicinamento verso qualcuno che è estraneo. Ma in questo atto di tradimento c’è qualcosa di anomalo, una condizione paradossale di complicità da parte del soggetto che viene tradito, dell’autore, del padre. Perché è lui, in realtà, che spinge quella sua creatura di carta nello spazio più distante possibile e nel tempo più lontano, che lo consegna nelle mani e al pensiero di persone di cui non conosce l’età, né il paese, che forse neppure esistono ancora, che con l’autore condividono o condivideranno ( e non sempre) soltanto la lingua. Ma l’autore sa che è l’esperienza dell’incontro con il lettore che consente ad un libro di vivere, che nelle vene di un libro scorrono i sentimenti, le passioni, le emozioni, le storie, i turbamenti di tutti i suoi lettori, di ciascun lettore. In una delle prime pagine dell’ “ Ombra del vento” di Carlos Ruiz Zafòn, in quel luogo straordinario che è il Cimitero dei Libri Dimenticati, in quella biblioteca gigantesca dall’impossibile geometria, un padre dice al figlio: ogni libro che vedi possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e quella di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie ad esso. Allora l’anima di un libro è plurale; in ogni pagina, ogni riga, ogni parola, pulsano innumerevoli anime, che provengono da ogni tempo e da ogni luogo, che appartengono ad esistenze conosciute o sconosciute, vive o concluse, anonime o famigerate, viziose e virtuose, altere o meschine. Sopra una pagina forse una volta è caduta una lacrima. Una parola forse una volta ha acceso un sorriso. In un saggio intitolato “ Che cos’è la letteratura”, Sartre diceva: “ Poiché la creazione non può trovare il suo compimento se non nella lettura, poiché l’artista deve affidare a un altro la cura di compiere ciò che egli ha iniziato, poiché è solo attraverso la coscienza del lettore che egli può cogliersi come essenziale alla propria opera, ogni opera letteraria è un appello. Lo scrittore si appella alla libertà del lettore perché essa collabori alla produzione della sua opera”. Seguendo questa strada e passando per il Roland Barthes teorico appassionato di un lettore inteso non come consumatore ma come produttore del testo, si potrebbe arrivare fino a quelle posizioni in un certo qual modo provocatorie ma indubbiamente suggestive di Stanley Fish , per esempio, il quale sostiene che l’interpretazione non è l’arte di analizzare i significati ma di costruirli. Il fine dell’interpretazione consiste nella ricerca del senso, oltre che del significato. Soprattutto del senso. La nozione evocata dal termine “ senso” – sostiene Andrè Martinet- è una delle più controverse della storia dell’umanità e risulta estremamente difficile, per chiunque si interroghi sulla natura del senso, restare nell’ambito della linguistica senza prendere in considerazione gli innumerevoli problemi di ordine filosofico,logico, psicologico, sociologico, epistemologico. Bisogna semplificare, quindi, considerata l’impossibilità di muoversi e di orientarsi nella dimensione poliedrica del senso. E semplificando si potrebbe dire che il senso è una delle possibili realizzazioni del significato; è determinato dalle reazioni di varia natura ( emozionale, culturale, sentimentale) che i significati del testo provocano nel lettore. Il senso va sempre oltre l’oggettività e la neutralità dell’interpretazione letterale e si determina in base alla carica di immaginario, all’evocazione di esperienze dirette o trasmesse culturalmente. Il rapporto profondo, intimo, tra il lettore e il testo, quindi, non si stabilisce attraverso il significato ma attraverso il senso. Ma un rapporto – qualsiasi rapporto – ha bisogno della partecipazione attiva di ogni componente: ha bisogno della passione, dell’entusiasmo, della stanchezza, del litigio, dell’incomprensione. Anche della noia ha bisogno. La noia spesso è la condizione da cui può nascere la riflessione e forse anche la scoperta. Se uno mentre legge si annoia, perde il filo, come si dice, e quindi deve tornare indietro per ricercare il senso di quel testo, di un frammento di testo, di una pagina, una frase, un verso, una parola, del suono e delle immagini che le parole restituiscono o proiettano, della menzogna che possono regalare o della verità che possono rivelare. Non esiste possibilità di un’interpretazione totale, definitiva ( o forse esiste solo per un libro banale). Un’interpretazione è sempre graduale, provvisoria, parziale. E’un patto tacito tra un testo e il lettore: un testo non svela mai tutti i suoi sensi, né propone sempre gli stessi. Spesso è ambiguo, fluttuante, cangiante. Ha fisionomie molteplici; molteplici dimensioni di tempo e di spazio. Simula menzogne. Nasconde verità. Poi ribalta i piani, rovescia le posizioni, e simula verità, nasconde menzogne. Nel “ Cratilo” di Platone, Socrate dice che Hermes – il dio che escogita, inventa, il dire e il discorso- può essere definito sia interprete e messaggero che ladro, ingannatore, bugiardo. Le parole possono rivelare e possono nascondere, spiegare o distorcere, essere oscure o essere chiare. Non è un caso – dice Socrate – che Pan, figlio dalla doppia natura di Hermes, abbia una parte superiore liscia e divina, che è la parte vera e abita fra gli dei, ed una parte inferiore rozza e caprina che abita fra la moltitudine degli uomini, dove innumerevoli sono le favole e le falsità. Allora la lettura di un libro pretende l’umiltà di una consapevolezza: quella che i suoi significati sono sempre più profondi della profondità che a noi è dato di raggiungere.