Da bambina non temevo

CASSANDRA
(o del riso dissipato)

di Marthia Carrozzo

Senza
fiato, voce, corpo o finestre da poter aprire,
né fuori, per dove aprire, né giunchi di membra da piegare, né d’occhi, lampi scorticati rubati alla corteccia delle mani, a far filtro alla luce, all’ossicine in ginocchio tutte cave.
C’è salvezza, all’inizio e c’è astuzia, scavalcamento di materia e ampiezze inattese nel girogiro a vortice degli atomi in ascolto.

Divinare è l’indizio.
Inizio d’indecenza tuttaperta.
Le unghie infitte nella carne, bianco spalmato abbraccio scheggiato di verdeoro.

Aprire gli occhi, sempre, sopra ogni pietà. Questo, mi è stato insegnato, e la pancia, pure, come su un lettino operatorio. Con il taglio verticale, lucente dei giorni annodati aggrappati alle viscere.

Da bambina non temevo.
Indicavo, senza smalti a tenere la direzione puntuta del dito più magro.
Di quale forma?
Di quale, ferma, forma e davanti.
Scorciamento indolore del mare,
tutta l’acqua sottratta, sopraffatta dal moto ineguale del sangue;
Ogni moto del sangue smagliato, smerigliato di polvere asciutta che sfuma i contorni sbiancati di labbra già morse disposte in un bacio.

Verità.
Ver - di primavera, ancora prima che venisse.
Non so dire il colore degli occhi già ciechi.
La sua pelle non ne aveva, né bisogno di pupille.
Di salvezza e cattiveria, prima.
Di miseria e tutto ancora ad apparire.
Del suo sesso nodoso sottratto di tutta la luce.
Rotazione già inetta di gemme in frantumi.
Non sapremo, quale vino laverà delicate giunture di membra discinte,
se mai potremo dirci uniti e salvi nella forma, immobili e inviolati
(e puri di più spuria vanità);
ma mai e mai dispersi dalla gioia e dissipati.